In un mondo sempre più interconnesso, dove la mobilità globale è diventata essenziale per una vita pienamente realizzata, il viaggio in aereo riveste un ruolo di primaria importanza. Eppure, l'aerofobia, ovvero la paura di volare, rappresenta un ostacolo significativo per un gran numero di individui. Questo timore, che si manifesta con intensità variabile, può avere un impatto profondo sulla vita personale e professionale, limitando le opportunità e generando un forte disagio. Nonostante l'esistenza di terapie efficaci, come la terapia cognitivo-comportamentale e la VRT (Virtual Reality Therapy), la diffusione del disturbo, sia in forma clinica che subclinica, pone diverse sfide. La difficoltà di diagnosi, legata ad esempio alla varietà dei sintomi e alla riluttanza a parlare del problema contribuiscono a rendere l'aviofobia una problematica complessa e persistente.
Subito dopo il pioneristico volo dei fratelli Wright nel 1903, l'avvento della Prima guerra mondiale vide un numero crescente di piloti militari e membri dell'equipaggio sviluppare una forte avversione al volo. Essi manifestavano una serie di sintomi somatici come i disturbi gastrici e l'insonnia. I medici militari, impossibilitati all'epoca di individuare una causa fisiologica di tali disturbi, li classificarono come psicosomatici, coniando così il termine "aeronevrosi" per descrivere questa afflizione (Anderson, 1919; Oakes & Bor, 2010). Era evidente come la predisposizione a questa condizione variasse significativamente tra il personale di volo e di conseguenza i medici attribuirono questo disturbo a una maggiore suscettibilità emotiva dovuta al "temperamento" o a una storia familiare di "instabilità nervosa". Con la fine della Prima guerra mondiale, l'interesse per l'aeronevrosi diminuì, seguendo il declino dell'aviazione militare in tempo di pace. L'attenzione verso il disturbo si riaccese allo scoppio della Seconda guerra mondiale, quando il crescente impiego di aerei in ambito bellico portò inevitabilmente a un nuovo aumento dei casi (Oakes & Bor, 2010). Negli anni '50, con la diffusione della psicologia, la comprensione delle origini del disturbo si spostò verso una prospettiva psicoanalitica, in linea con il pensiero dell'epoca. All'epoca dominavano le teorie freudiane e junghiane, che esploravano simboli e processi inconsci, e la convinzione che l'amore e la paura di volare fossero strettamente correlati (Bond, 1952; Oakes & Bor, 2010). Nonostante la scarsità di ricerche empiriche a supporto di questa prospettiva, gli studi di questo periodo offrirono probabilmente la prima descrizione dettagliata del disturbo che sarebbe poi stato definito "aviofobia" o "paura di volare". Successivamente, negli anni '70, si svilupparono le prospettive comportamentali e cognitive, che da allora sono diventate l'approccio predominante nel trattamento dell'aviofobia (Oakes & Bor, 2010).
In tutte le fobie, gli individui sperimentano una paura irrazionale, intensa e persistente quando si trovano di fronte a una situazione specifica (in questo caso, il volo in aereo). L'attenzione può concentrarsi sul potenziale danno derivante dalla situazione (ad esempio, la paura di un incidente aereo nel caso dell'aviofobia). Le risposte cognitive al volo includono la paura di un incidente aereo, la paura della morte, la paura di fare una brutta figura davanti agli altri passeggeri e la perdita del controllo (Illion, Bor e Gerwin, 2006; Oakes e Bor, 2010). A livello fisiologico, invece, si possono manifestare aumento della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca, iperventilazione, disturbi gastrici e persino attacchi di panico (Oakes e Bor, 2010). L'ansia si manifesta immediatamente in presenza dello stimolo fobico e varia in base alla vicinanza a tale stimolo e al grado in cui è limitata la possibilità di fuga. Di conseguenza, un passeggero con aerofobia potrebbe provare un'ansia da lieve a moderata durante l'imbarco (ad esempio attraversando il finger ovvero la passarella d'imbarco), che si intensifica durante il volo. È importante sottolineare una distinzione fondamentale: il soggetto con una fobia specifica è consapevole dell'irrazionalità della propria paura. Questo aspetto differenzia nettamente la fobia da un disturbo delirante, in cui la persona ha una convinzione incrollabile e distorta della realtà (ad esempio, la convinzione che dei terroristi stiano sabotando il motore dell'aereo). Inoltre, la diagnosi di fobia non è applicabile se esiste una ragione legittima per la paura, come volare in una zona di guerra o durante manovre complesse. L'aviofobia è classificata come una fobia situazionale, il sottotipo più comune. È frequente che una persona abbia più di una fobia all'interno dello stesso sottotipo. Ad esempio, non è insolito che chi ha paura di volare tema anche gli ascensori. Il tasso di comorbidità con altri disturbi varia dal 50% all'80% e può essere maggiore negli individui con fobie specifiche a esordio precoce. Tuttavia, solo il 12-30% delle persone con fobia specifica cerca aiuto. Studi (Oakes & Bor, 2010; McNally & Loura, 1992; Wilhelm & Roth, 1997) hanno identificato una categoria di individui che temono il volo e presentano una diagnosi di agorafobia, ansia generalizzata o disturbo di panico con agorafobia. In questi casi, la risposta di paura è sintomo di un disturbo più rilevante rispetto all'aviofobia "pura". Pertanto, la diagnosi differenziale richiede un'attenta valutazione per individuare il disturbo principale. Il DSM-5 sottolinea che gli individui con fobia specifica non presentano un'ansia pervasiva e continua, poiché questa è limitata a specifiche circostanze. Tuttavia, l'ansia può intensificarsi in prossimità del contatto con l'oggetto o la situazione fobica. Alcune presentazioni cliniche rientrano in una "zona grigia" diagnostica e richiedono un'attenta valutazione clinica. Quattro fattori sono utili per formulare una diagnosi accurata: il focus della paura, il tipo e il numero di attacchi di panico, il numero di situazioni evitate e il livello di ansia di base. Insieme alla paura di volare potrebbe manifestarsi come la paura dell'altezza, la paura di morire, la paura di trovarsi in un luogo chiuso e senza vie di fuga (claustrofobia), la paura di perdere il controllo o persino una combinazione di queste. Alcuni studi hanno evidenziato come chi soffre di un Disturbo di Personalità del Cluster C può anche presentare una fobia specifica come l'aerofobia.
Mentre i primi voli, specialmente in contesto bellico, presentavano un elevato rischio di incidenti (Jones, 1986; Oakes & Bor, 2010), oggi l'aviazione commerciale è una delle attività più sicure in assoluto. Volare è considerato più sicuro di molte attività quotidiane, come guidare, andare in treno o persino rimanere in casa. Ogni milione di ore di volo si traduce statisticamente in meno di 2,5 incidenti, e di questi meno di 1 su 10 comporta un decesso (Civil Aviation Authority, 2008; Oakes & Bor, 2010). Secondo uno studio della Harvard University del 2006, la probabilità di morire in un incidente aereo è di 1 su 11 milioni, significativamente inferiore rispetto a quella di essere vittima di un attacco di squalo, che è di 1 su 3 milioni. Nonostante l'eccellente livello di sicurezza, il disturbo è molto diffuso. Le stime e i criteri diagnostici variano, ma, ad esempio, nel 2008 un sondaggio condotto su 7076 adulti olandesi ha rilevato una prevalenza nel corso della vita del 2,5%, utilizzando i criteri del DSM-III per la fobia specifica (Delpa et al., 2008; Oakes & Bor, 2010). L'anno precedente, un sondaggio su 43093 adulti negli Stati Uniti ha rilevato una prevalenza del 2,9%, con una presenza maggiore tra le donne, i gruppi a basso reddito e i partecipanti bianchi rispetto agli asiatici o agli ispanici (Stinson et al., 2007; Oakes & Bor 2010). Utilizzando un criterio più generico un sondaggio su 2117 americani ha rilevato che il 17% aveva paura di volare. Persino i professionisti del volo, che scelgono volontariamente questa professione, possono sperimentare una paura sproporzionata rispetto al rischio reale (Dean & Whitaker, 1982; Oakes & Bor, 2010). Un questionario distribuito a 1147 membri dell'equipaggio di una compagnia aerea europea (747 membri dell'equipaggio di cabina, 400 piloti) ha indicato che il 9,2% prova paura più di una volta al mese e il 2,8% sperimenta paura e ansia quotidianamente o settimanalmente. È interessante notare che la maggior parte delle risposte affermative proveniva dall'equipaggio di cabina. L'80% dei piloti ha dichiarato di "non aver mai" paura. La prevalenza è maggiore tra l'equipaggio femminile (Dyregov et al., 1992; Oakes & Bor, 2010; American Psychiatric Association, 2000). Nel complesso, i dati attuali indicano che l'insorgenza della fobia specifica è multifattoriale e include eventi traumatici correlati, attacchi di panico nella situazione temuta, osservazione di altri in preda alla paura, subire un trauma o andare in panico, e l'eccessiva esposizione alle informazioni in rete. Inoltre, alcune prove suggeriscono che possa esistere una predisposizione familiare alle fobie, in particolare all'interno dello stesso sottotipo (American Psychiatric Association, 2010).
Le implicazioni di questa fobia specifica possono essere ampie e di vasta portata (Oakes & Bor, 2010). Una reazione naturale alla paura è l'evitamento, che può causare attriti nelle relazioni personali (Iljon, Bor & Van Gerwin, 2006; Oakes & Bor, 2010). Inoltre, possono manifestarsi vergogna e un elevato livello di disagio emotivo (Bor, 2007; Oakes & Bor, 2010). Oltre alle difficoltà personali, l'impatto sulla carriera può essere notevole in un'epoca di globalizzazione, dove molti professionisti devono viaggiare per lavoro, spesso in paesi lontani (Bor, 2007; Van Gerwen & Diekstra, 2000). Sebbene manchino prove empiriche in questo ambito (Oakes & Bor, 2010), è evidente che l'ansia o il rifiuto di viaggiare per lavoro può avere conseguenze negative sia per la carriera che per le aziende. La riduzione dei budget di viaggio e il miglioramento delle telecomunicazioni hanno in parte attenuato questo problema, ma spesso è fondamentale essere presenti di persona per creare relazioni interpersonali, affrontare questioni culturali e gestire situazioni delicate. Questo è particolarmente vero per i professionisti del settore aereo, che rischiano di perdere il lavoro a causa dell'aviofobia, con conseguenze devastanti per loro e le loro famiglie (Oakes & Bor, 2010). Tra tutte le industrie globali, quella aerea è la più colpita dall'aviofobia. La valutazione più completa degli effetti è stata condotta dalla Boeing Corporation (Oakes & Bor, 2010), che ha rilevato come il 17% degli americani affermi di avere paura di volare. La paura è la terza ragione più citata per evitare di viaggiare in aereo, dopo il costo e la necessità di un'auto a destinazione. Lo studio ha evidenziato che la paura di volare era responsabile di una riduzione del 9% dei ricavi delle compagnie aeree, pari a 1,6 miliardi di dollari di mancati ricavi nel 1982 (Dean & Whitaker, 1982; Oakes & Bor, 2010). Sebbene non siano stati condotti studi recenti su questo aspetto, è probabile che l'impatto economico sia rimasto significativo, data la prevalenza costante del disturbo. Inoltre, l'aviofobia può causare disagi e costi aggiuntivi per le compagnie aeree, dovuti a sbarchi all'ultimo minuto, rimozione dei bagagli e ritorno dei voli in casi estremi. È importante sottolineare che non è necessario soddisfare i criteri clinici dell'aviofobia per subirne le conseguenze negative o per trarre beneficio da un trattamento (Oakes & Bor, 2010). A livello comportamentale, la paura di volare si manifesta in modi diversi. Il sintomo più evidente è l'evitamento: chi ne soffre non vola, vola solo se strettamente necessario, oppure vola ma mostra un comportamento ansioso durante il volo (Iljon, Bor e Van Gerwin, 2006; Oakes e Bor, 2010). Possono emergere dei comportamenti di iper-controllo come la scelta del posto a sedere (vicino alle uscite o al finestrino), e domande continue all'equipaggio su meteo, problemi tecnici o qualifiche del pilota (Oakes e Bor, 2010). In alcuni casi, l'ansia può sfociare in aggressività. L'uso dell'alcol o di altre sostanzepuò peggiorare la situazione e causare comportamenti inappropriati (Oakes e Bor, 2010; Iljon, Bor e Van Gerwin, 2006; Tomaro, 2003).
La letteratura recente sul trattamento dell'aviofobia presenta una varietà di approcci. Due strumenti ampiamente utilizzati per la valutazione della paura di volare sono il Flight Anxiety Situations Questionnaire (FAS) e il Flight Anxiety Modality Questionnaire (FAM). Uno studio del 1999 (Van Gerwen, Van Dyke & Diekstra, 1999) ha sottolineato l'importanza di valutare "sentimenti, atteggiamenti e cognizioni" del paziente su eventi correlati al volo nelle terapie cognitivo-comportamentali. Lo studio ha descritto lo sviluppo del FAS e del FAM, valutandone l'affidabilità e la validità. Il FAS indaga situazioni legate al viaggio in aereo che possono provocare ansia, mentre il FAM valuta pensieri catastrofici e sintomi d'ansia anticipatoria. Prima di questo studio, erano state condotte poche valutazioni delle proprietà psicometriche dei questionari di autovalutazione (Bornas & Tortella-Feliu, 1995; Gursky & Reiss, 1987; Haug et al., 1987; Howard et al., 1983; Johnsen & Hugdahl, 1990). I risultati hanno indicato che entrambi gli strumenti sono affidabili e validi.
Uno studio del 1997 (Capafóns, Sosa, Herrero e Viña) ha evidenziato la complessità della diagnosi dell'aviofobia, che limita la ricerca in quest'area. Gli autori hanno valutato l'efficacia dell'uso di filmati per fornire "stimoli isolati", concludendo che "la visione di un video evidenzia delle differenze tra fobici e non-fobici a livello soggettivo". Di rilievo è il fatto che 3 dei soggetti fobici hanno dovuto interrompere l'esperienza simulata a causa dell'intenso disagio psicologico provato. Oltre ai video, diversi studi menzionano l'uso della realtà virtuale (Virtual Reality). Glantz, Rizzo e Graap (2003) sostengono che la terapia VRT, che simula l'esperienza di volo in un ambiente controllato, rappresenta un'alternativa promettente. I risultati di diversi studi indicano che la terapia VRT può essere efficace quanto i trattamenti tradizionali (Maltby, Kirsch, Mayers e Allen, 2002; Rothbaum, Hodges, Anderson, Price e Smith, 2002). Rothbaum et al. (2002) hanno valutato l'efficacia a lungo termine delle terapie di esposizione standard e la VR. I risultati hanno dimostrato che entrambe le terapie sono efficaci nel ridurre i sintomi dell'aviofobia, con l'80% dei soggetti che ha mantenuto i benefici del trattamento a un anno di distanza. Oltre alla desensibilizzazione , esistono altre opzioni terapeutiche. Uno studio del 2011 (Triscari et al.) ha confrontato l'efficacia della terapia cognitivo-comportamentale combinata con la desensibilizzazione e rielaborazione tramite movimenti oculari (EMDR) con la terapia cognitivo-comportamentale "classica". L'EMDR, sviluppato negli anni '80 dalla psicologa Francine Shapiro, è un metodo utilizzato nel trattamento del trauma. Lo studio ha concluso che l'EMDR può essere un trattamento valido per l'aviofobia, con oltre il 90% dei partecipanti in grado di prendere un volo commerciale dopo il trattamento. Un ulteriore studio di Weiderhold & Weiderhold (2003) ha esaminato l'efficacia a lungo termine di vari metodi di trattamento. I risultati, ottenuti dopo 3 anni e a 4 mesi di distanza dagli attacchi dell'11 settembre 2001, sono stati positivi, con poche "ricadute". In sintesi, diversi trattamenti, tra cui varianti di terapia cognitivo-comportamentale, la Realtà Virtuale e l'EMDR, hanno dimostrato di avere effetti duraturi nel trattamento dell'aviofobia.
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Dott.Igor Graziato
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Ordine Psicologi Piemonte
Psicologo del lavoro e delle organizzazioni
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